Di Beppe Miceli,
uno degli autori che spesso amiamo ospitare qui, pubblichiamo alcune riflessioni sulle caccia. É certamente trascorso del tempo da quel 19 settembre 2012 in cui Miceli scriveva questa nota ma il trascorrere del tempo non ha cambiato la realtà, oggi come allora, la caccia continua a mietere senza pietà vittime animali ma anche umane.
“Sono trascorsi ormai i tempi in cui i nostri genitori, appena reduci dalla guerra, ritenevano che saper imbracciare un fucile, puntare e fare esplodere un colpo “senza esitazione” contro una creatura vivente potesse essere considerata quasi una necessità vitale. Erano gli anni cinquanta, quelli in cui i bambini venivano condotti dai genitori nel bosco con i cani a cercare di stanare la selvaggina per ucciderla e portarsela a casa. Un berrettino ben calcato in testa, una sciarpina che strabuzzava dal maglioncino e le manine gelate per il freddo. Così abbiamo imparato ad imbracciare un fucile e a far nostro il concetto di superiorità perché possedevamo un’arma. Così abbiamo imparato a fare amicizia con la violenza, con il sangue, con i gli spasmi dell’agonia. Così abbiamo imparato a camminare affiancati a sorella morte nel suo nero percorso di oscurità. La guerra è ormai un ricordo lontanissimo e con essa dovrebbero essere scomparse le atrocità che accompagnano qualsiasi conflitto, da qualunque lato della barricata ci si ponga. Oggi che il mondo è molto cambiato, desiderano farci credere che le guerre non debbano mai finire. Che alcune sono addirittura estremamente necessarie. Le chiamano…. “guerre preventive”. Non esistono guerre preventive che vengano anche definite di contenimento, giuste o pacificatorie. Esistono solo guerre. É questo il concetto di base che tutti devono comprendere, perché se non si afferra bene ciò, siamo veramente allo sbando. Allo stesso modo accade nel mondo della caccia. Il passo è breve. La mentalità la stessa. La matrice unica: la violenza. I cervi sono troppi? I cinghiali, gli storni, i passeri sono troppi? Facciamo delle guerre di contenimento per contenerne i danni. Cacce di selezione le chiamano, seguendo pari pari gli stessi concetti ispiratori che prevedono un attacco all’IRAN per arrestare il suo sviluppo nucleare. Già, cacce di selezione messe in atto da quegli stessi figli e dai figli dei figli che hanno ricevuto in mano il loro primo fucile a 12 anni, di nascosto, con grande preoccupazione della mamma che restava ad aspettare babbo e figlio a casa. Ieri, nelle colline adiacenti Firenze, uno di questi babbi ha sacrificato all’altare del nonsenso il proprio figlio di 32 anni in un incidente di caccia. Un babbo mio coetaneo. Un babbo che sicuramente avrà anche lui ricevuto la consegna delle armi nel modo più classico: col berrettino ben calcato in testa, una sciarpina che strabuzzava dal maglioncino e le manine gelate per il freddo.”