Di Augusta De Piero
Siamo nel 1915. Il Piave non si è ancora esibito nel suo placido mormorio, lo avrebbe fatto più tardi, anche dopo aver inghiottito i cadaveri straziati di chi era stato sbattuto in acqua dai ponti minati per difendere la patria dallo straniero che non doveva passare.
Intanto una donna con tre figli si spostava da Scicli (Ragusa) a Siracusa per salutare il marito che era stato richiamato con l’ultimo contingente destinato a combattere in quella che chiamiamo Prima guerra mondiale. Fosse nato un anno prima sarebbe rimasto nella sua casa, certamente una povera casa in una terra conquistata per essere donata al re sabaudo che, nella continuità della dinastia, mai si occupò seriamente del Sud.
La tradotta che lo aveva portato al fronte risalì l’Italia in diciotto giorni. La lunghezza del viaggio probabilmente rese ancor più lontana quella terra del Nord che al suo paese veniva spesso indicata come “Piemonte”, associata al re nel cui nome si mandava la gente al macello. Il nostro Guglielmo, così si chiamava, non subì il lungo orrore delle trincee dell’Isonzo, ai piedi di Gorizia. Fu ferito dopo pochi giorni e morì di setticemia all’ospedale di guerra di Cormons. I suoi compaesani, come lui richiamati, tornarono a casa, raccontarono e di quei racconti c’è
ancora traccia nei ricordi dei loro discendenti che li ascoltarono bambini.
Uno di loro, che porta il nome del nonno morto a Cormons, si è fatto carico di ritrovarne la tomba e, senza troppo aiuto da parte degli uffici preposti, c’è riuscito, se tomba si può chiamare il povero loculo di Redipuglia con quel beffardo “PRESENTE” scolpito sulle gradinate.
Il nuovo Guglielmo ricorda le voci degli zii, che nella sua infanzia parlavano di luoghi allora difficili da collocare in uno spazio definito e noto: Cormons, Sagrado, Palmanova. Uno di loro quando diceva Palmanova si riferiva a un felice, ma non mai descritto nei particolari, incontro con una “sorella”. Una crocerossina? Una suora? Chissà!
Molti in paese pensavano che anche il “fronte” fosse un luogo definito, uno spazio limitato, tanto che affidavano a chi vi era mandato sacchetti di lenticchie o altro cibo perché li consegnasse al figlio, al fratello, al marito che avrebbe certamente incontrato come ci si incontra, pensavano, nelle piazze dei paesi. Quei ricordi testimoniano anche di una estraneità totale fra gli ufficiali e la truppa, che spesso non ne capiva neppure gli ordini gridati in italiano con accento piemontese, veneto o toscano.
Quanti furono ammazzati in quelle decimazioni praticate per “dare il buon esempio” perché non avevano capito l’ordine ricevuto?
Oggi conosciamo gli spazi stupendi di Scicli attraverso i film del commissario Montalbano, dove la città prende il nome di Vigata, e dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione per vedere la Scicli di allora caratterizzata da uno storico abbandono.
Solo questo sforzo può darci la misura della devastazione di una cittadina che per una guerra incomprensibile, combattuta chissà dove, perse in pochi anni una significativa parte della popolazione maschile attiva: 286 persone su circa 20.000 abitanti. Il prezzo dell’unità d’Italia.
* Augusta de Piero per il mensile udinese “Ho un sogno” – dicembre 2014
*Foto dal Web