di Daniela Giuffrida
Avvenne nella seconda metà di giugno di 70 anni fa l’eccidio di Murazzu Ruttu, in cui il professor Antonio Canepa e i suoi studenti furono uccisi dai Regi Carabinieri. Ogni anno, quel 17 giugno e la domenica successiva, i vari gruppi indipendentisti siciliani, si riuniscono in prossimità del “cippo” che il MIS (il Movimento indipendentista) pose a testimoniare una delle più brutte e misteriose pagine della storia dell’isola.
Già il 17 giugno scorso gruppi di indipendentisti si erano recati presso il monumento di Randazzo e al cimitero di Catania dove, sepolte sotto una stele nel Viale degli Uomini Illustri, riposano i resti di Antonio Canepa, docente universitario di 37 anni, comandante dell’Evis (l’esercito indipendentista) , Carmelo Rosano, il suo braccio destro, laureando in scienze economiche, 22 anni compiuti proprio quel giorno), Giuseppe Lo Giudice (18 anni studente liceale) e Francesco Ilardi, ucciso 5 giorni dopo i suoi compagni, durante un pattugliamento nei dintorni di Cesarò.
Un professore universitario e tre ragazzi: ufficialmente e incredibilmente scambiati dai Reali Carabinieri, per dei banditi.
Alla celebrazione del 70° anniversario era presente, così come ogni anno, fra gli altri gruppi, anche il professor Salvo Musumeci, presidente del MIS e a lui abbiamo chiesto il senso di questa celebrazione.
Musumeci ha risposto che una celebrazione come quella di Murazzu ruttu, vista nell’ottica di una riunione fra amici e conoscenti che ogni anno si ritrovano per condividerne la memoria, per quanto importante, viste le condizioni in cui versa l’isola, se restasse fine a se stessa, non avrebbe alcun valore: «Commemorare questi caduti per la causa siciliana, solo per il piacere di ritrovarci qui ogni anno», ha detto, «non ha più senso, dobbiamo esser presenti nella vita di ogni giorno della nostra isola e farlo in maniera propositiva. I Siciliani lamentano l’impossibilità di sostenere l’andazzo cui sono sottoposti da un governo centrale, ma non riescono a superarlo. Abbiamo bisogno, dunque, di partire dalle esperienze fatte, dalla testimonianza di impegno data dai nostri caduti, dalla consapevolezza della nostra territorialità, per fare quel salto di qualità e la presenza in questa occasione dei sindaci di tre importanti Comuni come quello di di Zafferana Etnea (Alfio Russo), Milo (Alfio Cosentino) e Capo D’Orlando ( Enzo Sindoni), ma anche di amministratori di chiara appartenenza al MIS come Serafina Palminteri, consigliere del Comune di Calamonici e di Cettina Foti, consigliere del Comune di Randazzo, e quella dello stesso Comune di Santa Venerina, da me rappresentato, è decisamente importante».
Musumeci ha detto anche che l’unità di gruppi che vantano tradizioni diverse, così com’è avvenuto in Scozia e in Catalogna, può concorrere al raggiungimento del fine comune, che è la salvaguardia e il recupero del benessere della terra siciliana.
Le testimonianze
Tante le presenze quest’anno a Murazzu Ruttu, fra gli altri, Alfio Velis, figlio di quel Nino Velis che insieme a cinque suoi compagni di lotta, il 17 giugno di settanta anni fa, si imbattè inel posto di blocco dei Regi Carabinieri che costò la vita al professor Canepa e ai suoi allievi (l’agguato fu voluto forse da servizi segreti, forse non si sa da chi: la storia è vaga e la polvere del tempo si aggiunge rendendola ancor più imperscrutabile, impenetrabile).
Il gruppo dei sei separtisti dell’EVIS si stava recando a Cesarò, piccolo centro dei Nebrodi, sul versante Nord-Ovest dell’Etna. Nino Velis, sedeva accanto a Pippo Amato, autista di un motocarro a tre ruote, Guzzi 500, nel cui cassone posteriore, erano state riposte, nascoste in due casse, delle armi; seduti sulle casse, il prof. Canepa e quattro suoi studenti. Erano quindi in sei su quel motofurgone.
Sig. Velis, le ha mai raccontato suo padre di quel giorno?
«Il ricordo di quel giorno per mio padre era molto confuso, ma me ne parlava spesso. Lui stava seduto accanto a Pippo Amato che era alla guida del motofurgone.Mentre percorrevano la strada che li avrebbe condotti a Cesarò, incontrarono il solito posto di blocco dei Regi Carabinieri. Era una strada stretta e sconnessa e il motofurgone, con sei persone a bordo e due casse con delle armi, le faccio immaginare come poteva andar veloce, lo si poteva tranquillamente raggiungere e fermare con una corsa».
Cosa accadde?
«Il mezzo passò davanti al posto di blocco, Pippo Amato rallentò, quindi non ricevendo dai Carabinieri alcun segnale che imponesse la sosta, riprese la normale andatura. Erano assolutamente tranquilli gli occupanti del furgone, tanto da non avere armi addosso, le armi erano chiuse nelle casse su cui erano seduti. A un certo punto alle loro spalle, da dietro un muretto, qualcuno sparò e i Carabinieri aprirono il fuoco sugli occupanti del furgone, senza dare loro il tempo di reagire, di abbozzare un tentativo di recupero delle armi. Un’esecuzione, fu come un esecuzione».
Qualcuno ha raccontato che uno dei ragazzi provocò i Carabinieri, mostrando loro delle banconote e dicendo loro che avrebbero potuti comprarli con quei soldi.
«Ma davvero lei pensa che con le armi nascoste sul camion, in una strada come quella, qualcuno di loro si sarebbe preso la briga di provocare una reazione dei Carabinieri? Volevano solo proseguire fino a Cesarò dove erano aspettati. Oltretutto, fra loro e i Carabinieri pare ci fosse una specie di tacito accordo, i Carabinieri li lasciavano passare tranquilli e i separatisti non infastidivano il territorio di Randazzo».
Quindi fu come se qualcuno avesse dato il via, offendo così ai Carabinieri il pretesto per aprire il fuoco.
«Amato accelerò, cercando di allontanarsi il più possibile dai carabinieri che continuavano a sparare ad altezza d’uomo. Se avessero voluto fermare un mezzo che andava pianissimo, sarebbe bastato sparare alle ruote, ma loro non volevano fermare gli uomini, arrestarli, volevano ucciderli e lo hanno fatto, non si spiega altrimenti ciò che è successo e ciò che è successo dopo. Amato accelerò, dunque, mentre mio padre si buttò giù dal furgone e raggiunse Cesarò a piedi e fu ospitato dal farmacista Schifani, Amato proseguì la sua “corsa” verso l’ospedale di Randazzo dove due dei ragazzi giunsero già cadaveri e Canepa morì poco dopo».
Cosa ne fu dei cadaveri?
«I quattro corpi furono messi dentro delle casse di legno e portate nottetempo al cimitero di Giarre, non al cimitero di Randazzo, badi bene, il tutto fu eseguito come da ordini superiori senza fare autopsia e senza avvisare i parenti. Non fu nemmeno accertata la morte effettiva di quei “cadaveri”, tant’è che uno stava per essere seppellito vivo!».
Ma furono visti dai medici dell’ospedale, quei “morti”?
«Non è dato saperlo, perché il verbale dei Carabinieri venne secretato e tale è rimasto. Mio padre parlava malvolentieri di questa storia e ogni volta lo faceva con un nodo alla gola. L’unica cosa che si chiedeva era: perché? Dove volevano arrivare, ma questa risposta la conosce solo chi diede gli ordini e non è detto che fossero scritti».
Il seguito della storia, nel racconto di Ciccina Lo Giudice. Non è stata presente alle celebrazioni di quest’anno, Ciccina, la sorella di Peppino Lo Giudice, il più giovane dei trucidati di Murazzu Ruttu.
Ha 94 anni, e una memoria lucidissima; è stata male in questi giorni, le chiediamo come stia,risponde rassicurandoci, si arrabbia quando parla dell’Amministrazione comunale del suo paese che ancora non ha deciso di intitolare una strada a suo fratello “ammazzatu nicu nicu pà sò terra” (ucciso piccolo piccolo per la sua terra). Quindi ci racconta la storia di quel giorno, ancora una volta.
Quella mattina, i Carabinieri erano andati a casa Lo Giudice, a San Michele di Ganzaria, a cercare notizie del giovane Peppino.
Peppino studiava a Caltagirone, ci racconta Ciccina, «era bravo…. si voleva diplomare». Quella mattina, dunque, in due arrivarono illesi a Cesarò, i due che stavano alla guida, mentre gli altri 4, dentro casse di legno «ca parevanu chiddi da frutta, si puttanu o cimiteru» (che sembravano quelle della frutta, li hanno portati al cimitero).
Al cimitero di Ionia, oggi Giarre, il guardiano (Isidoro Privitera, separatista anche lui) chiese i nomi di quei “morti”, ma i Reali Carabinieri risposero che erano solo quattro «banditi morti in conflitto». Il guardiano, sapendo per esperienza che prima di essere inumati sarebbe passato del tempo, aprì quelle casse, nel tentativo di farle arieggiare.
Triste spettacolo si offrì ai suoi occhi, corpi di ragazzini crivellati di colpi mentre il più “anziano” del gruppo, aveva soltanto uno squarcio nella gamba che opportunamente bendato gli avrebbe impedito di morire dissanguato.
I medici dell’ospedale di Randazzo avevano infilato in tutta fretta quei corpi dentro le casse, ma nella quarta cassa, uno di quei ragazzi era ancora vivo, era Armando Romano, nome di battaglia Nando, il suo diaframma si muoveva.
Ma tutto questo la “storia ufficiale” non lo racconta, «nuddu ni parra ma du carusu si savvau grazie o vaddianu du cimiteru!» Ricorda ancora Ciccina, “nessuno ne parla ma quel ragazzo si salvò solo grazie al guardiano del cimitero”.
E salutandoci mi ricorda «ciù ricissi lei o sinnuco cà mè frati era bravu picciriddu e mossi pa sò terra….», “lo ricordi lei al Sindaco che mio fratello era un bravo ragazzino ed è morto per la sua terra”.
Per Terroni di Pino Aprile – https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1633650870255476&id=1545756872378210
Per Team Giornalistico Valle Susa – http://www.tgvallesusa.it/2015/06/la-sicilia-ricorda-gli-indipendentisti-uccisi/