Di Daniela Giuffrida
Paolo Borrometi, minacce pesanti sfociate in una clavicola frantumata, porta di casa data alle fiamme, minacce velate e gridate telefonicamente e sulle pagine dei network: tanta solidarietà da parte di alcuni, silenzio assoluto da parte di troppi. Da ieri insignito dell’Ordine al “Merito del Lavoro” dal Presidente della Repubblica.
Il titolo di Cavaliere gli è stato riconosciuto per i risultati raggiunti e per l’impegno ad una responsabilità etica e sociale “volta al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro del Paese”.
Direttore della testata online “la Spia” e collaboratore dell’AGI, vive oggi sotto scorta e lontano dalla Sicilia, la sua colpa: scrivere di mafia e raccontare di quella provincia ragusana, considerata la provincia babba per eccellenza ma che, come dice lui “babba non è”.
Borrometi ed io ci siamo conosciuti in un momento particolare, io avevo ricevuto una serie di intimidazioni, lui era stato appena malmenato da certi sconosciuti che, senza parafrasare o altro, gli avevano intimato di farsi i fatti suoi e, tanto per gradire, lo avevano percosso fino a provocargli una frattura ad una clavicola ed una quantità industriale di contusioni sparse.
Quel giorno lo chiamai per offrirgli la mia solidarietà e parlammo a lungo, ci raccontammo le nostre vicende sorridendoci sopra e promettendoci solidarietà e disponibilità reciproca. Ricordo che chiudendo la conversazione, mi disse: “benvenuta su questa barca” ma lo diceva sorridendo, quasi come non credesse davvero di essere in una situazione di notevole rischio: da lì a qualche giorno gli sarebbe stata assegnata una scorta e si sarebbe trasferito lontano da Ragusa.
Ciao direttore, non vivi più in Sicilia, e questo è noto, mi racconti di cosa ti stai occupando?
“Ciao, ben trovata, si, mi sto occupando di cronaca giudiziaria, scrivo per l’AGI, lo sai, ma collaboro come editorialista con testate giornalistiche come “Il Tempo”, “Articolo 21”, “Ossigeno per l’informazione”. Sai, sono particolarmente contento perchè è rinato il progetto di “Libera Informazione” e mi è stato chiesto di occuparmi di una rubrica ed io, ovviamente, con molto orgoglio ho accettato.”
Mi dici cosa pensa Paolo Borrometi del giornalismo, come viene espresso oggi. Siamo lontani dai tempi di Spampinato, Siani, Fava?
“Quello che vorrei sottolineare è che oggi il giornalista, più che in altri momenti storici, deve muoversi da una base di onestà intellettuale e deve essere spinto da una passione talmente forte da permettergli di rifiutare compromessi lavorativi di qualsiasi tipo. Altrimenti il suo diventa un banale lavoro d’ufficio, gestibile dal proprio capoufficio e sottoposto a regole che lo privano della sua prima essenza: la libertà di pensiero e di espressione. Si, il Giornalismo, quello con la G Maiuscola, non può scendere a compromessi di alcun tipo.”
Noi ci siamo conosciuti in un momento molto particolare, scrivevamo di Vittoria, e tu avevi avuto il tuo secondo contatto ravvicinato con alcuni personaggi del ragusano. Prima la minaccia incisa sulla tua auto, poi le percosse, ma non ti sei fermato.
“Io provengo da una famiglia di avvocati e tutti speravano che proseguissi su quelle orme, diciamo che i piani per me non erano quelli di fare il giornalista, io però fin da piccolo avevo un mito, non voglio nemmeno definirlo un “mito”, perchè per me continua a vivere, sebbene Ragusa abbia preferito dimenticarlo: Giovanni Spampinato.”
Ci parli di lui? Credo che non siano in molti a conoscere la sua storia, credo sia stata messa a tacere di proposito da chi aveva interesse a farlo, che ne pensi?
“Sono sempre stato convinto che Giovanni Spampinato sia il simbolo della provincia di Ragusa per tante ragioni, una su tutte: Giovanni era un ragazzo di 25 anni quando fu raggiunto da sei proiettili dentro la sua cinquecento, quella notte di ottobre del ’72. Lui era cosciente della bellezza del territorio nel quale viveva ma era anche cosciente delle tante zone d’ombra che la nostra provincia “custodiva” gelosamente negli anni fine ’60, inizi ’70. Cadde per mano del figlio del presidente del tribunale di Ragusa di allora. Giovanni era stato l’unico giornalista a rivelare che il figlio del procuratore era coinvolto nelle trame nere del neofascismo, era riuscito a documentare le attività nascoste ed i rapporti delle organizzazioni di estrema destra locale con la criminalità organizzata.
Lui scriveva proprio di tutto ciò di cui Ragusa non voleva sentire parlare, quindi, rapporti fra estremisti e criminalità organizzata, Massoneria e società segrete. Chiedeva che l’inchiesta in cui secondo lui era coinvolto quel Campria fosse spostata ad altro tribunale, ma questo non avvenne e venne trattato come un pazzo visionario, un po’ come adesso e successo a me, a te o a chi cerca di scrivere in maniera libera.
Io credo che la storia di Giovanni sia quella che viene considerata come un delitto irrisolto, l’omicida è stato catturato, ha scontato la sua pena, quindi è tornato in libertà e oggi si permette anche di minacciare querele, ma molto di quella storia ci è oscuro. Questo è il contesto ragusano in cui io ho vissuto.”
Dopo Giovanni Spampinato la provincia di Ragusa ha dovuto aspettare Paolo Borrometi?
“No, dopo Spampinato, la provincia di Ragusa venne finalmente raccontata proprio dai “Siciliani”. Fava scriveva di Ragusa, giustamente, che è una provincia dalle troppe zone d’ombre, una provincia usata come “lavatrice” per ripulire il denaro sporco, ma non solo, scrisse per la prima volta che i mafiosi c’erano e che se non si vedevano era solo perché non si volevano vedere ma i mafiosi c’erano. E poi Giorgio Ruta e pochi altri, purtroppo. “
E’ un po’ quello che già da diversi anni stai facendo tu.
“Si, è così. Io ho trovato una serie di documenti inediti che pian piano sto pubblicando, documenti che riscrivono la storia di quella che “provincia babba” non è mai stata, quella provincia che qualcuno ha interesse a dipingere come “babba”.
Parliamoci chiaro, nessuno può e deve sfuggire alle responsabilità storiche, sono stati prefetti, questori, parlamentari ed altri che hanno portato avanti il mito della provincia “babba”, proprio per lavarsi la coscienza e per creare, direttamente o indirettamente, un humus fertile per determinati affari che poi effettivamente si sono compiuti nella nostra provincia.
In questo contesto, io comincio a scrivere e in questo contesto comincio a ricevere “minacce”, quasi dopo tre anni dall’inizio del mio lavoro. Minacce che solo in parte sono pubbliche.”
Di cosa scrivevi in quel periodo?
“In quel momento io stavo scrivendo della privatizzazione del cimitero di Modica (sono solo due i cimiteri privatizzati in Sicilia e questo dovrebbe dirci qualcosa) io sono dell’idea che a tutto ci sia un limite e che non si possa privatizzare la morte; stavo facendo, dunque, un’inchiesta giornalistica sul cimitero di Modica ed altre inchieste sulle case popolari, ricettacolo di criminalità organizzata e poteri forti. Perché è vero che vi è un altissimo numero di abusivi, ma il problema non sono loro quanto piuttosto “chi” assegna le case e le modalità che vengono usate e vi sono responsabilità che hanno nomi e cognomi, di quello parlavo in quel periodo.”
Ti eri reso conto di rappresentare un problema per qualcuno e di poter provocare reazioni di quel genere?
“No, fino a quel momento io forse non mi rendevo conto di rappresentare un problema o una minaccia per qualcuno, io stavo solo cercando di fare il mio lavoro senza pormi troppe domande, un po’ come fai tu.”
Cosa accadde quella mattina?
“Quando quella mattina trovai quella scritta su tutta la fiancata del lato passeggeri della mia station wagon, pensai ad uno scherzo, di cattivissimo gusto ma ad uno scherzo, mai avrei pensato di rappresentare un problema per qualcuno e proprio in quel momento storico della mia vita: ero appena laureato, stavo iniziando la pratica e scrivevo già per il “Giornale di Sicilia”.
In quel periodo faccio un grosso sbaglio: il “Giornale di Sicilia” ha difficoltà e mi convincono a passare al “La Sicilia”, questo è stato, professionalmente, sicuramente un grosso sbaglio, per quella che è la storia di quel quotidiano, non dimentichiamo il doppio ruolo assai pericoloso di Ciancio, direttore ed editore del giornale è personaggio che rappresenta un vero “centro di potere” e come uomo e come imprenditore, che ha grande influenze nelle provincia di Ragusa.
Da quel momento cominciano ad arrivarmi segnali che mi fanno capire chiaramente come non sia aria e mi allontano dopo un breve periodo dalla Sicilia. Così il 1° settembre del 2013 nasce il progetto de “la Spia”.
Da quel giorno sono sorti una serie di problemi, io veramente non pensavo di rappresentare un pericolo per qualcuno o che qualcuno potesse avere paura di ciò che scrivessi io e la nostra redazione di pazzi visionari”
Non rappresenti un pericolo, però li fai arrabbiare e vengono fuori in maniera plateale.
“Ma perchè si arrabbiano, chiediamocelo… Vedi, Tizio, Caio o Sempronio si arrabbiano perchè, nei fatti, non sono abituati a sentire parlare di loro. Questa è una critica che faccio a noi giornalisti, esempio ne è come è stato trattato il tuo direttore. Io vedo soprattutto disordine di idee e di indicazioni, mi spiego: se il Ventura di turno a Vittoria, si arrabbia con un determinato giornalista, tutti gli altri dovrebbero riprendere il discorso e anche loro dovrebbero riprendere l’argomento e fare quasi da scudo umano…”
Qualcuno lo fece, ricordo una tua collega.
“Si, ma non si risolve nulla in due, uno o due si finisce con il diventare obiettivi, basterebbe essere una moltitudine e si smetterebbe di essere degli obiettivi, si sarebbe scudi umani.”
Quando io scrissi la prima volta per il tuo giornale, un paio di persone che conoscevo mi dissero di stare attenta, di scrivere pure per la Spia ma di fare attenzione al suo direttore perché non era autentico come sembrava. Mi dissero che il tuo poteva essere stato un attentato finto o comunque derivato da storie di “corna”.
“Io vengo aggredito il 16 aprile del 2014, vengo ridotto davvero male, da allora mi porto addosso conseguenze fisiche “permanenti”. Subito i bravi giudici del “io so tutto” parlarono di un attentato inventato, ma il loro parlare durò davvero poco e dovettero arrendersi davanti al fatto che io avevo sporto denunce circostanziate e correlate da referti medici e specialistici, con tanto di verbale di Pronto Soccorso. Dovettero arrendersi davanti alla gravità del dato oggettivo. Poi ci fu un bravo collega (caporedattore della Sicilia) che fu querelato e che scrisse qualche giorno dopo un articolo titolato “La mafia invisibile” e da quel giorno venne fuori la storia delle corna…
Vedi, purtroppo, la nostra terra è drammaticamente piena di storie di corna, ricordi Pippo Fava? Il giorno dopo la sua uccisione, i
giornali titolarono “Ucciso il giornalista Fava: delitto passionale”. Purtroppo in Sicilia, qualunque cosa accada, la si butta subito a mignotte.
Io mai ho collegato quella mia aggressione a nulla. A me, gli inquirenti hanno chiesto cosa stessi scrivendo in quel periodo ed io ho raccontato di cosa stessi scrivendo e raccontai anche che, durante l’aggressione mi erano stati ripetuti degli epiteti che mi erano stati già detti durante alcune telefonate antecedenti alla stessa aggressione. Penso che, giustamente, gli inquirenti abbiano indagato a 360° su ciò che mi gravitava intorno e sulla mia stessa persona, ho avuto telefoni sotto controllo e, nel mio stesso interesse, hanno rivoltato la mia vita come un calzino e se nulla è emerso, è segno che nulla c’era di “strano” che potesse emergere. Io non ho mai collegato quell’aggressione ad alcunché, ma ho chiesto di non essere lasciato solo e lo feci pubblicamente. Questo può essere considerato un reato?
Proprio in quei giorni io raccoglievo materiale e mi apprestavo a pubblicare una inchiesta che poco più tardi avrebbe contribuito allo scioglimento del Comune di Scicli, stavo scrivendo della morte di Ivano Inglese, altro giallo della nostra terra; sono andato avanti a pubblicare le mie inchieste sul Comune di Scicli e a tutti è noto ciò che è successo dopo, fino all’incendio della porta di casa mia, mentre ero in casa con i miei genitori ed i miei animali.
Anche su Scicli mi avevano accusato d’essere un pazzo visionario, e quello è stato il periodo più brutto della mia esperienza giornalistica, perchè avevo tutti contro, perfino i colleghi che scommettevano sulla figuraccia che avrei fatto quando sarei stato “sbugiardato” dai fatti. Noi abbiamo scritto dell’allora sindaco Susino e del suo ruolo in quella vicenda mafiosa di Scicli e sono piovute minacce di denunce e querele solo tre giorni dopo, gli è stato consegnato un avviso di garanzia per mafia!
Per farla breve, oggi il comune di Scicli è sciolto per mafia, il sindaco è rinviato a giudizio per associazione a finalità mafiosa, così come succede ad altri politici infami di questa terra, uno su tutti Totò Cuffaro, che esce di prigione convinto di essersi ricostruito una verginità.”
Però la sua scarcerazione è attesa con trepidazione da tanti siciliani, come fosse un atto di giustizia dovuta ad un uomo che ha scontato la propria pena
“Sai, ognuno di noi è responsabile delle proprie azioni e risponde alla propria coscienza. Paolo Borsellino diceva che la vera rivoluzione si fa nelle cabine elettorali con una matita ed una scheda elettorale. Io non faccio politica, né la vorrò fare in futuro, amo troppo il mio lavoro, ma sono anch’io convinto che dovremmo lamentarci meno ma, soprattutto, ritengo che si debba essere consequenziali alle proprie lamentele e non aspettare che altri risolvano per noi i problemi di questa terra.”
Dunque, per dirla alla Pippo Fava: la mafia nella provincia di Ragusa c’è.
“Io penso che la provincia di Ragusa abbia rappresentato e rappresenti, nella sua territorialità pur piccola ma molto complessa, un centro di interessi e di investimenti di mafie molto diffuse ed ampie, nel suo territorio si muovono la “Stidda”, “Cosa Nostra” palermitana e catanese e in parte quella nissena, la “Ndrangheta” e i Casalesi, presenti in particolare, al mercato di Vittoria ed entrati grazie ai trasporti dei quali detengono il monopolio e che continuano a fare affari all’interno del mercato di Vittoria. I Casalesi sono stati scoperti ovunque, noi ce li teniamo ben stretti perchè evidentemente ci danno conto. Questo è un dato oggettivo. Possiamo dire e fare qualsiasi cosa, l’importante è che ci si metta d’accordo su un fatto: la mafia c’è e per dimostrare questo, un collega è morto, tanti colleghi non ci sono più e tanti colleghi come te, cercano di fare questo lavoro con una voglia di libertà assoluta.”
Come vive Paolo Borrometi, fuori dalla sua terra, lontano dalla sua famiglia?
“Io sono sotto scorta da più di un anno e mezzo, penso sia una “non vita” ma cerco di vivere al meglio pur nelle immense ristrettezze che si possono avere. Senza alcun tipo di pietismo, certo, non è una “vita”, non lo è per me nè per chi mi vive accanto ma cerco di viverla a testa alta. Sono davvero convinto che finché nel nostro paese ci sarà un solo giornalista costretto a vivere sotto scorta, uno solo e qualunque nome abbia, questo non sarà un paese libero”
Grazie Direttore.
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