di Daniela Giuffrida
Ed è in giorni come questi che torni in mente tu, vittima n. 289, piccolo naufrago dimenticato.
Era il 2013 ed era il primo giorno di ottobre quando avevi lasciato il sole caldo della tua Africa, dentro il pancione della tua giovanissima mamma, con lei, avresti affrontato un viaggio difficile, lungo tre giorni e due notti.
Circa 550 persone – ha raccontato un sopravvissuto – erano salite, accalcandosi sui 20 metri di quel peschereccio salpato dal porto libico di Misurata. A bordo, con la tua mamma, migranti di origine eritrea, somala e ghanese e poi tu, piccolo uomo, concepito solo sette mesi prima.
Una strana notte quella fra il 2 ed il 3 ottobre: il mare era agitato e la notte era stata lunga, stretti, pigiati in quei 66 piedi di bagnarola puzzolente, avete traversato il canale di Sicilia. Poi era stata l’alba.
Le prime luci del giorno avevano mostrato, illuminandoli, i contorni della piccola Isola dei Conigli e un po’ più in là, a mezzo miglio, Lampedusa. La notte iniziata il 1° ottobre era finalmente svanita e con lei la paura: stanchi, stremati, pigiati come sardine eravate arrivati a destinazione: il peggio era ormai passato.
Poi, l’imprevisto, qualcuno (l’assistente del capitano?) lascia cadere, getta, scaglia – non si sa bene – una torcia infuocata, questa cade in mezzo alla gente, in una pozza di gasolio.
Il fuoco improvviso si espande, diventa un incendio, la barca gira su sé stessa tre volte – racconta un sopravvissuto – quindi sparisce fra i flutti, cola a picco e si adagia a 47 metri di profondità.
Intorno alle 7:00 circa, alcune imbarcazioni da diporto, alcuni pescherecci locali, vedono quei corpi in acqua e danno l’allarme, ne raccolgono quanti possono; quando dopo circa un’ora arriva la Guardia Costiera, per molti di loro non c’è altro da fare che constatarne l’avvenuto decesso.
E tu, piccolo uomo africano?
La tua mamma era una giovane donna, aveva meno di vent’anni ed era una donna forte. Le donne africane lo sono tutte, sono costrette ad esserlo ed imparano in fretta le dure leggi della sopravvivenza: lei era pronta a tutto pur di garantirti un futuro. Aveva trovato posto insieme ad altri 108, nella parte inferiore della bagnarola libica, dentro la prua, giù, al riparo dalla brezza marina: lei voleva arrivarci su quella costa lampedusana e voleva arrivarci in salute, aveva un bambino dentro di sè, un bambino libero che sarebbe nato in una terra libera.
Ma la sua forza, la sua determinazione, non erano bastate e lei era rimasta lì: intrappolata come un topo, prigioniera senza speranze, dentro quella prua che si è inabissata inesorabilmente, lei la vittima n.288, porterà con sé per sempre il suo piccolo “n. 289”.
Vi hanno trovati così i sommozzatori, cinque giorni dopo, alle tre del pomeriggio e dopo una lunga immersione, eravate ancora uniti da un cordone ombelicale che nessuno ha fatto in tempo a tagliare. Tu non saprai mai cos’è la luce, l’abbraccio della tua mamma, i tuoi occhi hanno visto solo il buio di quelle profondità salate e sul tuo viso solo la carezza gelida del mare di ottobre.
Qualcuno aveva pensato di separarvi, tu bambino prematuro, insieme agli altri bambini, in una cassa bianca, la tua mamma, poco più di una bambina, con gli altri adulti: separati e seppelliti chissà dove, chissà a quanta distanza l’uno dall’altra.
Poi, un barlume di umana pietà ha spinto, chi ha composto i vostri corpi, a seppellirvi insieme. Unica consolazione in questa immane tragedia sapere che sei stato considerato un “bambino” e non un feto, un bambino, un cucciolo d’uomo degno di sepoltura.
La tua mamma, piccolo africano vittima n. 289, cammina accanto a te verso la stessa meta, qualunque essa sia, per sempre.