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CARA MARA, TI SCRIVO…

Immagine del redattore: Daniela GiuffridaDaniela Giuffrida

Aggiornamento: 19 giu 2024


Di Daniela Giuffrida

Aprile 2020: prima Pasqua dell’era “coviddiana”

Ciao amica mia,

poco fai scrivevi in un tuo post su un social del numero dei contagiati dal Covid-19 nella nostra città, io ho commentato la tua nota con un sorriso non perché fosse divertente ciò che scrivevi ma solo perché ho pensato a quale sarebbe stata l’espressione del tuo viso se ti avessi detto che sono “isolata” da tre giorni nella stanza numero 0, dell’area Covid-19, di un reparto di malattie infettive del più nuovo ospedale della città. Pensa, sto in una camera bianca, bella, pulitissima e continuamente igienizzata, tutta per me, con uno stuolo di “astronauti” (palombari?) che mi coccolano con controlli continui. Stamattina un mio amico direttore mi diceva: “così fanno i cronisti veri, si fanno venire tremila malanni e per direttissima si sottopongono ad un “percorso Covid-19″, brava ragazza!” Lui scherzava ma io, altrettanto gentilmente l’ho mandato a quel paese.

La tua reazione è stata quella che avevo immaginato: “Ma che stai dicendo???” e poi “Ma che cavolo!!!! Quando ti posso chiamare?”. Ora, non è che io abbia granché da fare, ma il mio respiro corto mi impedirebbe una delle nostre lunghe chiacchierate, sicché preferisco scriverti.

Strani giorni quelli che l’Italia sta vivendo, amica mia, che tutti noi stiamo subendo: decine di migliaia di persone costrette a una quarantena della quale non si vede la fine, giorni colmi di solitudine e di silenzi interminabili, famiglie in pena per figli lontani e per nonni che improvvisamente spariscono nel silenzio più straziante. Con loro spariscono anche le “solite” cause di morte per altre patologie. Quante le vittime “vere” di quel minuscolo mostriciattolo? Non lo sapremo mai con certezza e nemmeno approssimativamente.

E’ scomparsa un’intera generazione, quella dei nostri nonni, dei nostri genitori e non ci sono parole di conforto che possano lenire distacchi così importanti, frustrazioni tanto forti date dal vivere tanto lontani dai nostri affetti, da quei figli che, in un profondo gesto di amore e altruismo, hanno preferito non lasciare le zone “rosse” in cui lavorano e vivono la loro quotidianità, lontani da casa.

E poi quei decreti incomprensibili che si accavallano e confondono tutti e quell’idea che si fa sempre più consistente che stia mancando in questo momento, da parte del Governo, quella “autorevolezza” che forse sarebbe necessaria: ma sarebbe davvero necessaria? Sarà questo interminabile lockdown che metterà fine a tanto dolore? Città spente, gente chiusa in casa e ambulanze a sirene spiegate per le strade deserte: se non fosse tutto vero, potrebbe sembrare l’opera prima di un regista, neanche tanto bravo!

Sì, sembra un brutto film, poi una mattina ti svegli e ti rendi conto che quella che sta male adesso sei tu.

Hai pensato ad un banale raffreddore, hai febbre, tosse, respiri male e ti senti tanto stanca. Prepari il tuo caffè e ti accorgi di non sentire il suo profumo, avvicini le tue labbra alla tazzina che ti scotta ma che non ti dà alcun’altra sensazione, pensi “strano questo caffè, forse non dovrei comprare quello ecosolidale, costa meno ma non sa di niente, forse dovrei cambiarlo“. Lo butti giù mentre una leggera nausea ti prende lo stomaco, poi te ne torni a letto.

Ti sei beccata l’influenza e aspetti la tua solita laringite, prepari il solito cortisone e ti metti in attesa, ma non succede niente. Dopo tre giorni stai sempre peggio: quella tosse secca, stizzosa e quel respiro corto non accennano ad andar via. Cominci a porti 1000 domande a cui forse potrà dare risposte solo il tuo medico. Trascorri la quarta notte insonne e al mattino, di buon’ora. lo chiami. Speri possa darti lui una risposta ma è più confuso di te. Prova ad inventarsi una ipotesi, darti delle risposte ma l’unica cosa di cui è sicuro e che riesce a biascicare è che “suo malgrado” non verrà a visitarti a casa. Pensa ti sia beccata il virus e allora che fare?

“Le do la terapia che in ospedale fanno agli ammalati di Covid – ti dice – quindi antipiretico mattina e sera e antibiotico per prevenire l’insorgere di possibili infezioni batteriche, faccia anche un po’ di eparina e così ci mettiamo al sicuro (al sicuro de che?). Stia serena e ci sentiamo fra un paio di giorni. Se continua a star male così, va in ospedale.”

Cominci la terapia che ti ha indicato ma dopo 8 giorni nulla è cambiato, anzi, l’altissimo dosaggio dell’antibiotico distrugge il tuo stomaco. Trascorri le tue giornate fra il bagno e il letto, la nausea e la tosse ti impediscono di mangiare, perdi 6 kg e cominci davvero a disidratarti e a preoccuparti. Richiami il tuo medico e lo informi di quanto sta accadendo. Lui ti risponde semplicemente: “Faccia presto, chiami subito il 118 e si faccia portare in ospedale.”

Arrivano a sirena spiegata i due “astronauti” (palombari?), spengono la sirena solo davanti al cancello d’ingresso facendo uscire sui balconi tutti i tuoi vicini. Fanno davvero una strana impressione: sono vestiti di bianco e completamente coperti, riesci a vedere solo gli occhi attraverso occhiali di plastica trasparenti. Uno di loro ti viene incontro su per le scale. E’ gentile e ti chiede se puoi scendere a piedi, con un filo di fiato rispondi di sì.

L’ambulanza riaccende la sirena e la spegne solo all’ingresso del Pronto Soccorso. Il barelliere apre il portellone: una dottoressa si avvicina e ti fa duemila domande, quindi decide di inviarti al Triage “normale” e lì ti accompagnano i ragazzi del 118. Altre domande, un’infermiera abbozza una scheda quindi ti manda in sala d’aspetto.

Resti lì qualche minuto ma la tua tosse non smette di squassarti il petto, passa un medico ti guarda e da fuori la porta ti dice: “Cos’è questa tosse? Chi è lei signora?” poi, sempre più agitato urla: “CHE CI FA QUI QUESTA SIGNORA????”. L’infermiera che ti aveva registrata gli risponde che la dottoressa all’ingresso ti ha mandato da loro. Lui sempre più isterico non riesce più a controllarsi: “Signora vada via da qui, vada in fondo a questo corridoio e aspetti, qualcuno verrà a prenderla, vada via ha capito? SE NE VADA!”.

Mentre lasci la sala d’aspetto lo senti urlare: “PRESTO, MUOVETEVI, SANIFICATE QUESTA STANZA, MUOVETEVIIIII!!!”

Ti senti un’appestata, sei spaventata; raggiungi la fila di sedie che separa in due quel corridoio e aspetti. Un altro astronauta ti raggiunge camminando a rallentatore e ti fa cenno con una mano di seguirlo. Ha un nome scarabocchiato sulle spalle sorridi e pensi a cosa avranno pensato i suoi genitori quando hanno deciso di chiamarlo “Noè”.

Resti tutto il pomeriggio in una stanza, duemila prelievi, esami di tutti i tipi: ECG, Ecografia, Emogas, Tampone-Covid…  quindi una TAC che parla chiaro: “c’è qualcosa che non va, signora, ho mandato la sua tac all’ infettivologo, la vuole in reparto. Aspetterà lì gli esiti del tampone che arriveranno domani, così, se dovesse essere positivo è già in reparto e provvedono subito. Alle 20 la trasferiamo.”.

Arrivano presto le 20 e arrivano altri due astronauti senza volto e senza nome che, gentilissimi, si occupano di te, uno ti dà il braccio, l’altro porta la tua borsa e in men che non si dica sei già in un altro ospedale. E’ fresca l’aria della sera, ma tu senti freddo, tanto freddo: l’ago cannula inserito nel tuo polso ti ha impedito di indossare una manica della felpa e la tua spalla seminuda è gelata, un gelo profondo, inspiegabile, ma cerchi di non pensarci. In lontananza vedi l’ingresso del reparto ma voi entrate da una porta laterale, una tagliafuoco, che vi conduce in una specie di atrio, In quello spazio di cemento armato, parcheggiata sulla parete di sinistra, appoggiata su un carrello, una specie di cassa in metallo, sembra una di quelle che la Polizia Mortuaria usa per il recupero di cadaveri. Per un istante il tuo sguardo incrocia quello dell’ autista ma nessuno dei due dice una parola.

Ti fai piccola piccola, sei piccola piccola.

Ascensore, destinazione 5° piano, nato come reparto “Ebola”, adesso reparto Covid 19.

Non credevi saresti stata ricoverata ma per una specie di scaramanzia, hai portato con te un pigiama e il carica-batteria del cellulare: il giorno dopo saresti certamente andata via, non ti serviva altro.

Il mattino è arrivato in fretta, non hai dormito bene, troppo silenzio in quella grande stanza tutta bianca con un solo letto, un tavolo, una sedia, un armadio ed una grande finestra.

Alle sei del mattino comincia il via vai di infermieri e di quanti si occupano delle pulizie, sono tutti nei loro scafandri bianchi: salutano quasi sottovoce e fanno tutti ciò che devono in un silenzio totale, non fanno rumore e si muovono adagio: tutto sembra irreale poi è il primo prelievo, le prime medicine, la colazione, infine resti da sola con le tue paure, mentre il chiarore del nuovo giorno entra dal finestrone alla tua destra, anche lui arriva adagio, senza fare alcun rumore.

Fuori solo nuvoloni grigi carichi di pioggia, provi ad aprire la finestra in cerca di un po’ d’aria: il tuo respiro corto è ormai diventato una “fame d’aria” che non riesci a controllare. La finestra si apre solo di una decina di centimetri e l’aria che ti sbatte sul viso è gelida, non riesci a respirarla, guardi il verde che puntella la “sciara” intorno al muro di cinta ma non un profumo di erba fresca ti arriva, non un odore qualsiasi: anche i grandi cespugli di ginestra, agitati dal vento freddo, non emanano il loro particolare profumo. Un brivido improvviso ti fa chiudere il finestrone e ti suggerisce di tornare sotto le lenzuola. Ma arrivano i medici.

Saranno medici? Infermieri o cosa? Sono in tre e tutti uguali, intravedo solo i loro occhi attraverso gli occhialoni di plastica ma anche quelli sembrano tutti uguali. La loro voce è gentile, ti fanno domande, vogliono sapere ancora dei tuoi sintomi, ma non serve dire troppo, respiri male, la tosse non ti dà tregua. Loro parlano di tracce di una infezione polmonare interstiziale ma aspettano i risultati del tampone per stabilire con certezza se si tratti di COVID o no.

Nel pomeriggio viene a trovarti il primario del reparto, questi entra da solo nella stanza, si scusa per non essere venuto prima. Ti fa delle domande, non parla molto e il suo sguardo è assorto, non indossa alcuno scafandro e così puoi vedere i suoi capelli brizzolati, riesci anche ad intuire un sorriso dalle rughe che si arricciano fra il bordo della mascherina e i suoi occhi. Il tono della sua voce è rassicurante e la gentilezza dei suoi modi e del suo dire ti tranquillizzano, sai di essere nel posto giusto.

Quel pomeriggio gli esiti del tampone non arrivano e non arrivano neanche il giorno dopo e l’altro ancora. Pian piano la tristezza comincia a farsi strada così come l’ incomprensibilità di queste giornate fatte di esami, prelievi e calciparina. Non hai ancora notizie del tuo tampone quando un infermiere viene a fartene un secondo. Tu gli domandi perché un altro tampone e lui ti risponde che il primo era positivo. Tu resti a fissarlo senza dire una parola: pensi solo a tua figlia che sta vivendo la sua prima gravidanza a mille e cento chilometri da quella stanza, tua figlia che forse non vedrai mai più e pensi al suo bambino che non conoscerai.

Il secondo tampone si perde come quello di tanti altri pazienti ricoverati in altri reparti (hai saputo solo dopo) e a te sembra di vivere in un limbo, una specie di attesa estenuante che sembra non dovere mai finire. Il tempo scorre lento, le giornate si allungano, il tuo telefono continua a squillare, le tue sorelle e poi gli amici che han saputo, che temono per te, che cercano a loro modo di farti compagnia ma parlare ti costa fatica, chiedi perdono e riattacchi. 

Passano i giorni senza che nulla accada. Guardi il tuo orologio: ogni istante che senti scorrere è importante e provi a contarlo. Poi perdi il conto e ti perdi anche tu, ogni volta che un “astronauta” o un “palombaro” entra in camera senza bussare, interrompendo il silenzio ovattato che la riempie. Una camera troppo grande per te sola, troppo bianca, troppo fredda, troppo sterile.

E Pasqua si avvicina.

Un pomeriggio, una signora che hai intuito essere tale solo dalla sua voce è entrata nella tua stanza e parlando adagio ti ha detto: “signora io ho finito il mio turno, se vuole mi fermo qui con lei e le faccio un po’ di compagnia” sembra timida, come non voglia disturbarti e tu ti domandi quanto deve essere grande il suo cuore se dopo un turno certamente stressante, si pone il problema del tuo isolamento, della tua solitudine. Le sorridi e le dici: “grazie signora, la sua gentilezza mi riempie il cuore, non può immaginare quanto le sia grata per questo suo gesto ma vorrei che lei andasse a casa, che riposasse un po’, vada serena: io lo sono.”.  Non puoi vedere il suo sorriso, ma sai che è sulle sue labbra, oltre la mascherina, mentre ti ringrazia e ti augura la buonanotte.

Stamattina, la tua “amica” delle pulizie mentre sanificava il pavimento si è fermata un istante a chiacchierare con te. Dopo essersi presentata, ti ha detto: “sono su Facebook, signora, così può vedere il mio viso”, le hai risposto che l’avresti certamente cercata e le avresti scritto. Quando è uscita, chiudendo la porta dietro di sé, ti sei domandata perché abbia voluto dirti chi è; forse ha avvertito il tuo disagio davanti all’assenza del suo sorriso o forse è stata una sua necessità dirti che è capace di sorridere.

Sei andata a cercarla su Facebook ed hai trovato una bellissima ragazza bionda con un fisico da modella, lontana anni luce da quello scafandro bianco. In quella foto, accanto a lei vi è una bambina, bionda anche lei, sicuramente la figlia, le somiglia tanto. Ti domandi se lei riesca a trascorrere del tempo con la sua bimba, una volta fuori da quel reparto o se, come tanti altri suoi colleghi, una volta a casa si chiuda in una stanza senza vedere nessuno. Avresti voluto parlare con lei, avresti potuto domandarle tante cose, come sta, se ha paura, se è triste, se le piace il suo lavoro ma pensi che forse violeresti la sua intimità e così la lasci andare via ringraziandola come fai con ognuno di loro, ogni volta che fanno qualcosa per te.

Non è educazione la tua, non sono buone maniere, è solo rispetto per il loro lavoro, per i rischi che corrono ogni giorno, per quel perdere la loro identità dentro candide tute da astronauti che presto saranno insopportabili da indossare, è profondo rispetto per la loro umanità che va al di là del loro lavoro.

Quando lei è uscita, sei andata alla finestra e l’hai aperta: una folata di aria fresca ha investito il tuo viso e un forte, penetrante profumo di ginestra ha riempito i tuoi polmoni, hai tossito ancora ma quel profumo si è intrufolato in ogni fibra del tuo essere, impadronendosene. Non hai idea, cara Mara, di cosa significhi non sentire sapori e odori da giorni e improvvisamente renderti conto che puoi sentirli ancora: è un’emozione che non si può descrivere.

L’effetto di quei profumi che invadono la tua anima ti regalano pianto e riso insieme: adesso sai che è passata: qualunque cosa sia accaduta non ha più importanza, domani farai il terzo tampone che sei certa sarà negativo. Non stai bene, sai di avere altri problemi che dovrai curare, forse ti trasferiranno in un altro reparto, certamente dovrai curarti, ma il peggio è passato.

Appena fuori da quella stanza “numero 0”, correrai da tua figlia e abbraccerai il suo pancino che cresce e insieme aspetterete che venga al mondo il suo bambino. Lascerai in quella stanza tutte le tue paure, il tuo malessere e porterai con te solo il ricordo di uomini e donne speciali che vivono tanto del loro tempo chiusi in tute da astronauti, uomini e donne che si muovono adagio senza fare rumore, con la giusta consapevolezza di essere in un reparto “speciale”: persone straordinarie che ti hanno mostrato, senza saperlo, la loro “umanità” e tu puoi  solo ringraziarli per averlo fatto.

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