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Immagine del redattoreDaniela Giuffrida

L’ORO DEI NAPOLI

Aggiornamento: 19 giu


Di Daniela Giuffrida


“Agalmata neurospasta!”, la voce di Fiorenzo Napoli tuona possente e lascia senza parole i vivacissimi bambini che riempiono festosi il suo laboratorio. Aveva chiesto ai suoi piccoli spettatori, tutti alunni di una scuola elementare, quale fosse il nome che gli antichi Greci avevano dato alle marionette e i bambini si erano prodotti in una miriade di nomi, nomignoli e quant’altro senza poter minimamente immaginare quale fosse quel nome.

Agalmata neurospasta, ovvero immagini mosse da fili, e il maestro puparo mostra ai bambini una marionetta immobile sul palmo della sua mano: questa, immediatamente, prende vita quando le sue dita cominciano a muovere adagio i fili alle loro estremità. Poi è un susseguirsi di marionette di tutte i tipi e di tutte le nazionalità, marionette avute in omaggio dai “teatri del mondo” in cui i pupi dei Napoli sono stati ospiti.

“Voi avete i telefonini, i palmari e i computer – dice Napoli ai suoi piccoli ospiti – vi basta pigiare un tasto e vi appare il mondo intero, ma quando li spegnete, il mondo sparisce: queste marionette invece prendono vita al buio, illuminate solo da una lampada” e mostra ai bambini delle figure praticamente perfette, fatte di pelle ovina o vaccina, intagliate con una maestria incredibile, veri capolavori di armonia: “impariamo a guardare e ad apprezzare il bello, mi raccomando” dice a quei bambini, letteralmente incantati, mostrando loro come si muove una marionetta nell’ombra.

Dopo oltre un’ora di lezione i bambini vanno via e noi ci intratteniamo a parlare con il maestro Napoli e la moglie Agnese che, nella marionettistica di famiglia, ha il ruolo di parlatrice e costumista. L’ambiente è piacevole e ogni angolo di quella casa–laboratorio, che gentilmente Agnese e Fiorenzo ci mostrano, trasuda storia, tradizioni e arte. L’ intervista con il maestro, da ufficiale che doveva essere, assume un tono amichevole, a tratti quasi familiare.

Agnese e Fiorenzo Napoli


Maestro come nasce questa passione per i “Pupi”?

La nostra è l’ultima, autentica famiglia di pupari: oggi il termine “puparo” è spesso abusato: i pupi vengono costruiti con macchine industriali, presse e quant’altro e vengono messi in vendita come souvenir per i turisti ma una volta il puparo era “il puparo”. Vede, una volta il pubblico aveva il proprio puparo, quello che frequentava per gradimento, scelta, vicinanza. Pensi, a Catania esistevano oltre 14 teatri dei pupi che, ogni sera, ricevevano il proprio pubblico: un fenomeno teatrale che non esiste in alcuna altra parte del mondo. A quel tempo un solo pubblico si recava ad assistere ai mille episodi di uno spettacolo, oggi vi è un unico spettacolo per mille spettatori.

Gli spettacoli che venivano rappresentati, seguivano un percorso narrativo?

Si certo, seguivano un percorso preciso che avviava il pubblico alla conoscenza della storia. Tutti i personaggi nascevano, crescevano, prendevano le armi, si sposavano; negli spettacoli si assisteva al cambiamento d’epoca e quindi i personaggi da bambini diventavano giovani, da glabri prendevano i baffi. I contenuti raccontavano e proponevano “valori”: erano legati alla morale, alle ideologie, alla deontologia e non alle leggerezze o agli intrecci frivoli di oggi ed erano il sistema attraverso il quale il puparo, che era il dotto del quartiere, nutriva “mentalmente” i propri affezionati.

Il contesto storico era sicuramente particolare…

Si era a metà dei due conflitti mondiali, in pieno disfacimento della società, dell’architettura, la nostra cultura languiva perché la povertà era tanta e sicuramente non vi era molto tempo da dedicare alla propria alfabetizzazione. Ma attraverso l’opera dei pupi la Chanson de geste, la Gerusalemme Liberata, l’ Orlando Furioso, lo stesso Shakespeare erano conosciuti anche da coloro che non sapevano leggere e scrivere.

Il primo dei Napoli?

Il primo fu don Gaetano Napoli, mio nonno. Lui si spense in questa stanza mentre io stavo seduto lì, proprio dov’è seduta lei.  Era il 1968, io avevo 13 anni e ricordo ancora il suo rantolo di morte. Vede, ogni angolo, ogni millimetro di questa casa è una cellula del mio io. Io ho voluto assorbire come una spugna ogni gesto, ogni condizione, ogni codice, ogni attrezzo, ogni parola dei miei maggiori. Io che sono il più piccolo della terza generazione mi sento prescelto dal destino: colui che ha dato seguito a quanto iniziato dal nonno. Solo mia moglie ed io abbiamo messo i nostri figli al “servizio” dei pupi e del pubblico. E i nostri collaboratori sono gli eredi di coloro che furono collaboratori dei miei maggiori, anche loro fanno parte della nostra famiglia.

È molto bella questa casa, profuma di antico.

Si, hanno vissuto generazioni di Napoli in questa casa. Qui è vissuta e morta anche mia madre. Lei è stata una donna straordinaria, una combattente, una donna elegante. Pensi, Garinei e Giovannini diedero a lei la parte della baronessa di Scutari nel “Rinaldo in campo”, togliendola ad un attrice milanese. Quello spettacolo fu interpretato la prima volta da Modugno, Delia Scala, Franchi e Ingrassia e poi da Massimo Ranieri, nelle edizioni successive.

Ci racconta di suo nonno?


Il nonno nacque in via Fortino vecchio, vicino al teatro Eliseo. I suoi primi passi di bambino li mosse contemporaneamente ad una persona che poi divenne Angelo Musco. Il nonno mi raccontava che lui la mattina indossava le sue scarpe ed usciva, così da bambino come da adulto; in casa Musco, invece, indossava le scarpe chi si alzava per primo al mattino: nella famiglia Musco erano nati 14 figli ed era una famiglia molto povera.

Siamo alla fine del 1800, inizi del 1900 e in una Catania ricca di fermenti teatrali di ogni tipo, nascevano teatri ovunque: i catanesi amavano il teatro in tutte le sue forme e questo al di là delle comuni difficoltà economiche. Il nonno era un gran lavoratore, aveva imparato l’arte del sellaio ed era diventato bravo e ricercatissimo: guadagnava bene e la sera frequentava i teatri dei pupi, si impratichiva. Un giorno ebbe l’ occasione di “comprare il mestiere”. Il termine astratto “mestiere” da noi è usato concretamente e comprende: pupi, fondali, colori e quant’altro. Quindi il nonno divenne imprenditore puparo. Egli sapeva muovere i pupi, sapeva costruirli: di giorno, continuava il suo lavoro di sellaio e preparava i pupi per lo spettacolo che avrebbe tenuto la sera.

Mio nonno aveva un figlio che nel 1934 morì a soli 19 anni. Questo figlio era la gioia della famiglia, lui viveva d’arte, nella sua penombra disegnava il bello, il nudo e i pupi con una maestria unica da lasciare chiunque sbalordito. Quando questi morì, il nonno volle consegnare la sua storia a mio padre allora dodicenne:  “Nataleddu – gli disse – Sariddu mossi ora tocca a tia”. Gli diede tavolozze, pennelli e colori che mio padre fece suoi fino a 63anni, quando fu ucciso da quel pupo.

Ucciso nel “manovrare” un pupo?

Papà si spezzerà il cuore durante uno spettacolo a Lampedusa, manovrando quel pupo: una ischemia cardiaca decreterà la sua morte “civile” avvenuta in quel teatro; poi seguirà quella fisica avvenuta il giorno del suo compleanno mentre rientrava a casa e si trovava da solo in strada. Su questo fatto ho creato uno spettacolo dal titolo “L’oro dei Napoli”.

Sono grandi quanto uomini questi pupi e saranno pesantissimi, andate in scena con loro?

No questi ormai vanno solo nei musei: non siamo più ragazzini, e con loro bisogna andare molto cauti. I pupi ti selezionano: loro sono gloriosi, superbi, imponenti, ti scelgono e ti dicono “stringiamoci la mano, prestami la tua anima, sii tu come io sono con te”. Ma essi sono anche disumani, chiedono grossi sacrifici a chi li manovra, chi non li tiene in mano non lo può capire.

Dopo il suo malore, papà capì la necessità di creare un teatro più piccolo e, grazie a quello, i pupi hanno continuato a vivere, altrimenti sarebbero definitivamente spariti, estinti.

Con questi pupi più piccoli andiamo per i teatri del mondo, dalla Cina all’America, alla stessa Europa. Nel loro riquadro scenico vengono amplificati e diventano grandi come questi, usiamo una prospettiva teatrale particolare, abbiamo dei codici che affrontiamo e non “appiattiamo” il tutto come fanno altri.

Quindi quando andate in scena siete molte persone

Certo, ci sono i “manianti” che “maniano” (muovono) i pupi, seguendo il testo narrato e interpretato dal “parraturi” (narratore)e lo traducono in gesti.

I suoi figli proseguiranno la sua attività?

Si, ognuno di essi, appena concluso il proprio ciclo di studi, ha dato una mano alla famiglia ed ora, essi stessi rappresentano una parte del presente e il futuro della nostra tradizione di pupari.

Questo progetto con le scuole?

Si tratta di PON (Programma Operativo Nazionale)a cui aderisci dopo aver presentato un curriculum personale che dà un certo punteggio. Sono stato io stesso il primo a lanciare questi progetti ed ho un altissimo numero di Pon a mio vantaggio: ho davvero parlato a generazioni di bambini ed è fantastico incontrare uomini fatti che, con figli a seguito, ci fermano per strada, cercano di farsi riconoscere e finiscono sempre col ricordarci il bellissimo periodo vissuto da ragazzini fra i pupi della nostra bottega.

Le piace tanto questo lavoro?

Non è un lavoro, ma una grande passione, una specie di missione quella di far valere ancora i significati del “tradere” cioè del trasmettere, del tramandare storia, tradizioni e valori veri. Purtroppo questa “missione” è diventata sempre più rara. Probabilmente resteremo noi soli gli unici a mantenerla viva, ma non importa: fintanto che ci sarà un anelito di vita noi continueremo a raccontare e a raccontarci perché per questo, probabilmente, siamo nati.

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