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Immagine del redattoreDaniela Giuffrida

“Caro professore..” – Lettera aperta ad un intellettuale siciliano

di Daniela Giuffrida

Caro professore,

avevo 13 anni quando il mio vecchio prof. di greco (volato via da oltre quarant’anni) ci raccontava, guardandoci severo come solo un vecchio professore di greco sapeva guardare oltre quarant’anni fa, che per i greci ποίησις aveva un solo significato ed era: “creazione”.

“Potete inventarvi tutti i significati che volete – ci diceva – ma la poesia è uno stato d’animo, una creazione dell’animo umano che nasce in un preciso momento, da precise condizioni “spirituali” ma anche ambientali: la poesia nasce, si colora e si nutre dei profumi del suo stesso sentire e poi… vive in eterno. Ma come l’animo, la poesia è mutevole e muta al suo mutare.

Ho avuto il piacere e l’onore di incontrarLa qualche sera fa: insieme a Lei, alcuni poeti.

Ascoltare dei Suoi viaggi, dei Suoi incontri e delle Sue illustri amicizie è stato un piacere, così come sorridere con Lei alle Sue battute. Lo è stato un po’ meno, devo confessarLe, sentirLa trascendere con insulti scadenti e gratuiti nei confronti di qualcuno che, per ovvi motivi legati a differenze di età e di esperienze culturali, ha osato non condividere la Sua stessa “opinione”.

Ma se è vero che la grandezza di un uomo si evince dalla sua umiltà e dalla capacità di ascolto, di critica e di autocritica che egli possiede, è vero anche che la stessa “grandezza” si può desumere, anche, dalla capacità di sopportazione dei limiti altrui e dalla disponibilità alla comprensione di dati oggettivi, ma, soprattutto, ritengo che la grandezza di un uomo si evinca dalla sua “buona educazione”, da quella buona educazione che fa restare seduti al proprio posto e sorridere, sebbene l’unica reazione saggia e “moderata”, sarebbe alzarsi e andare via, abbandonando immediatamente un consesso col quale molto poco si ha da condividere.  Ma alla Sua “simpatia” tutto si perdona.

Al di là del fatto “personale”, caro Professore, devo confessarLe che, comunque, non è stato piacevole ascoltare il Suo discorrere sul povero “Giacomino” che, un po’ squinternato, a suo tempo non si sarebbe reso conto di aver regalato alla sua donzelletta che tornava dalla campagna sul far della sera, un mazzolino di rose e viole. Sono convinta che se il poveretto avesse immaginato di diventare, duecento anni dopo averlo scritto, lo “zimbello” di una ragazzina giapponese che parla bene l’italiano e di illustri intellettuali siciliani, sicuramente avrebbe evitato di scriverlo.

Indubbiamente non è logico mettere in un mazzolino, tutte insieme, le viole di marzo e le rose di maggio; chissà perché, però, io ho sempre immaginato che in quel mazzolino così “innaturale”, ci fosse una sorta di trait d’union fra la stagione della giovinezza e l’inizio della stagione adulta, chissà perché ho sempre pensato che il desiderio di continuità fra le due “età” nasceva dall’insano bisogno della grande anima di “Giacomino” di vedere mischiate, insieme alla bellezza e alla purezza della primavera, quella gioia e quel calore, tipici dell’estate: tutti doni dei quali, la vita e la sua salute, non gli avevano permesso di godere. Ma la “ποίησις è creazione”, diceva il mio vecchio professore di greco: ergo?

Lei ha creato il Suo “giacomino senza pollice verde”, io il più grande poeta che la storia della Letteratura italiana ricordi, ovvero: “ci siamo fatti un film” entrambi?

Allo stesso modo, devo ancora confessarLe che mi ha un po’ deluso ascoltare dalla Sua voce, dello stupore da Lei provato davanti alla studentessa giapponese: “stupirsi” e sorridere sulla questione del mazzolino della contadinella, può essere normale e accettabile da parte di una platea impreparata sull’argomento, ma da Lei non me lo aspetto: Lei sa bene come questo sia argomento di discussione e confronto fra i critici letterari, già dal 1930 da quando, cioè, un tal Mario Fubini, aprì la discussione con un suo commento ai “Canti” del Leopardi.

Io tutto questo lo avrei anche detto se solo Lei e gli altri relatori aveste avuto il buon gusto di non interrompermi ad ogni mio “pie’ sospinto”, ma tant’è…

Saltando di palo in frasca (mi conceda la licenza, La prego..), a proposito dei “moti dell’animo” e di quel “sentire” che, a mio modesto avviso, sono fonte primaria di poesia e a proposito della questione siciliana così cara e denigrata da qualche presente nella sala, devo dire a Lei e agli altri, che esistono Siciliani che vivono di “moti dell’animo”, pur non chiedendosi mai cosa sia la “poesia”, né perché Dante abbia deciso di smarrirsi nel bel mezzo di una “selva oscura”. Da questa parte dell’universo, miei cari intellettuali, esistono Siciliani che giorno dopo giorno lottano per fare uscire la nostra terra da quella “selva oscura” e la nobilissima casa che ci ha ospitato, ha visto i natali di uno di loro.

Ogni giorno, Siciliani “naturali” ed altri “naturalizzati” che non trattano di letteratura dall’alto di una posizione accademica, vivono di questa Sicilia e fanno della loro esistenza e della loro presenza “sul campo”, altissima “poesia”: sono Siciliani che mettono in gioco la propria vita, dall’alto delle loro barricate, da dentro le loro trincee. Perchè, se è vero com’è vero che tanti, troppi Siciliani, vivono alla giornata e tirano a campare senza sapere di possedere un’ “anima” e lasciano impigrire la propria intelligenza; se è vero che la maggioranza di loro non è ordinata come un Veneto, né puntuale come un Milanese o educato come un Piemontese, vi sono Siciliani che vivono in strada e mettono in discussione tutti i santi giorni di tutte le sante settimane e per tutta la loro vita, la propria faccia e la propria pelle, spesso perdendole entrambe.

È vero, il siciliano a volte si lascia intimorire dalla presenza di ospiti eminenti e lascia che un amico sia insultato, dimenticando quanti impegni quell’amico abbia messo da parte per stargli accanto e resta a guardare senza dire una sola parola, anzi, a volte riesce a fare molto di più, esprimendo appieno il meglio di se stesso. Allo stesso modo, però, un altro siciliano, non ci pensa su due volte a spalancare le porte della propria casa, a dartene le chiavi, a cederti il suo letto senza che tu gli abbia chiesto niente, senza aspettarsi da te nient’altro che la promessa di rivederti ancora.

Si, la Sicilia è terra di forti contraddizioni, per fortuna aggiungo io, perché se la contraddizione viene espressa in “buona fede” può creare dialogo, confronto e permettere la crescita: pensi, caro professore, se tutti avessimo le risposte alle Sue domande retoriche, se tutti avessimo incontrato Eco, Einstein o Borges, crede che qualcosa sarebbe cambiata nella vita della nostra Sicilia?  Se mi aveste lasciato parlare, io queste cose le avrei pure dette, guardandoVi tutti negli occhi e non starei qui a scriverVi alle tre del mattino.

Grazie  per avermi accolto nella tua casa, Nadia, per il tuo thè verde bollente, per la tua sensibilità e la tua anima e a te Valentina, piccola “agenda rossa” per avermi permesso di conoscere i bambini del vostro quartiere ed il vostro impegno di volontari per il risanamento del Centro Storico di Palermo.

Grazie a te, grande Paolo, per avermi ricordato, col tuo sguardo serio, da dentro una cornice posta all’interno della tua casa natale, come siano esistiti, esistano e possano ancora esistere “Siciliani” come te.

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